Lavoro e Previdenza

Monday 07 February 2005

Anche con la legge Biagi l’ appalto di manodopera può essere penalmente sanzionato. Cassazione – Sezione terza penale (up) – sentenza 20 dicembre 2004-3 febbraio 2005, n. 3714

Anche con la legge Biagi
l’appalto di manodopera può essere penalmente sanzionato.

Cassazione – Sezione terza penale
(up) – sentenza 20 dicembre 2004-3 febbraio 2005, n. 3714

Presidente Savignano
– Relatore Fiale

Pg Passacantando
– Ricorrente Infante ed altro

Svolgimento del processo

Con sentenza del 7 ottobre 2003, il Gip del tribunale di Lodi affermava la penale
responsabilità di Infante Williams ed Infante
Giuseppe, in ordine alla contravvenzione di cui agli articoli 110 Cp e 2 della legge 1369/60 (per avere nelle rispettive
qualità di legali rappresentanti della Srl “Cosmetic Production” e della società cooperativa a rl “Milano Servizi”, violato il divieto di appaltare
manodopera, avendo la società “Cosmetic Production”
affidato in appalto l’esecuzione di prestazioni lavorative mediante personale
formalmente assunto e retribuito dalla società cooperativa “Milano Servizi” – acc. in Crespiatica,
il 15 gennaio 2002). E, riconosciute ad entrambi circostanze attenuanti
generiche, condannava ciascuno alla pena di euro
2.200,00 di ammenda.

Avverso tale
sentenza hanno
proposto ricorso gli imputati, i quali hanno eccepito:

– la intervenuta
abrogazione della normativa di cui alla legge 1396/60, in seguito all’entrata
in vigore del D.Lgs. 276/03, e la conseguente depenalizzazione della fattispecie di reato contestata;

– l’apodittico ed immotivato
disconoscimento dei contratti di appalto posti in
essere tra la Srl “Cosmetic
Production” e la società cooperativa “Milano Servizi”;

– l’erroneo computo delle giornate
lavorative ai fini della commisurazione concreta della pena.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere rigettato,
poiché infondato.

1. L’articolo 85 del D.Lgs 276/03 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge
30/2003 – cd riforma Biagi) ha abrogato l’articolo 27
della legge 264/49, tutta la legge 1369/60, i primi undici articoli della legge
196/97, nonché tutte le disposizioni legislative e regolamentari incompatibili
con detto D.Lgs che è entrato in vigore il 24 ottobre
2003.

Si pone, pertanto ,
l’esigenza di valutare tale “abrogazione” alla stregua delle nuove disposizioni
sanzionatorie introdotte dall’articolo 18 dello
stesso D.Lgs 276/03, ai fini della corretta
applicazione dell’articolo 2 Cp in relazione ai fatti
già penalmente sanzionati dalle norme abrogate.

In tale prospettiva, la questione
proposta con il primo motivo di ricorso (pretesa intervenuta depenalizzazione
del reato di cui all’articolo 1, comma 1 della legge 1369/60) è stata già
affrontata da questa Sezione, con le sentenza 2583/04, ric. Marinig;
24/2/04 ric. Paginoni e 34922/04, ric. Casati, le cui conclusioni vengono condivise da questo Collegio.

Va perciò ribadito
– tenuto conto dei principi affermati dalle Su in materia di continuità
normativa (sentenze 7/11/00, Di Mauro; 13/12/00, Sagone
e 16/6/03, Giordano) – che, secondo una valutazione di tipo strutturale delle
fattispecie tipiche, l’appalto di mere prestazioni di lavoro (ora qualificato
come somministrazione di lavoro) continua ad avere rilevanza penale quando esso
venga effettuato al di fuori delle condizioni soggettive ed oggettive previste
dalla nuova normativa.

Appare opportuno ricordare, in
proposito, che la legge 1369/60 vietava ogni forma di intermediazione
ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e prevedeva, all’articolo 1 comma
1, il divieto per l’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in
qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere
prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita
dall’appaltatore o intermediario,qualunque fosse la natura dell’opera o del
servizio cui le prestazioni si riferivano.

Era considerato, inoltre, appalto di
mere prestazioni di lavoro, ex articolo 1, comma 3, della stessa legge 1369/60,
ogni forma di appalto o subappalto, anche per la
esecuzione di opere o servizi, ove l’appaltatore avesse impiegato capitali,
macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, a prescindere dalla
erogazione di un compenso.

L’anzidetto divieto era sanzionato penalmente dall’articolo 2 della legge 1369/60.

La rigidità del principio del
“monopolio pubblico” del collocamento, fissate dalle leggi 264/49 e 23/10/69,
però era stata via via superata da successive
disposizioni normative: quali la legge 196/97 (che aveva legittimato, in
determinati casi, le imprese private iscritte in un apposito
albo nazionale a mettere a disposizione di altre imprese l’opera di prestatori
di lavoro temporaneo assunti dalle prime, ai quali doveva essere assicurato il
trattamento retributivo vigente nelle seconde) ed il D.Lgs
469/97 (che, all’articolo 10, aveva consentito l’esercizio di attività di
mediazione tra domanda e offerta di lavoro ad imprese aventi determinati
requisiti, previa autorizzazione del ministero del Lavoro).

Questa Corte Suprema aveva già
affermato che le sanzioni penali previste dall’articolo 27 della legge 264/49
continuavano a trovare applicazione anche dopo l’abolizione del “monopolio
pubblico” degli uffici territoriali del ministero in materia di
intermediazione del lavoro, attuata dai testi legislativi del 1997
dianzi citati (vedi Cassazione, Sezione terza, 1055/03, ric. Pm in proc. Vezzosi).

La più recente riforma del mercato
del lavoro, attuata dal D.Lgs 267/03, lungi
dall’introdurre una totale deregolamentazione del settore della
somministrazione di manodopera da parte di imprese
private verso altre imprese private: ha identificato un unico regime di
autorizzazione per i soggetti che svolgono attività di somministrazione di lavoro,
di intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale (articoli 4-6); ha consentito
che la somministrazione di lavoro possa essere oggetto, in forme più ampie
rispetto al passato ma pur sempre a determinate condizioni di liceità, di un
contratto di diritto privato (articoli 20-21); ha continuato comunque
l’intermediazione abusiva e non autorizzata (articolo 18).

La nuova normativa, pertanto, ha solo
ampliato il previdente sistema derogatorio ad una attività
generalmente illecita, prevedendo che tale attività possa essere lecitamente
svolta purché nel rispetto di plurime e specifiche condizioni.

Il D.Lgs
276/03, a tal riguardo, si è perfettamente conformato alle prescrizioni della
legge di delega 30/2003, ove era stato precisato – all’articolo
1, comma 2, lettera m), n.6 – che doveva
esservi “conferma del regime sanzionatorio civilistico e penalistico
previsto per i casi di violazione della disciplina della mediazione privata nei
rapporti di lavoro”.

Si configura, quindi, una “abrogatio sine abolitione” per i fatti di somministrazione di lavoro da
parte di soggetti privati non formalmente autorizzati,
già puniti secondo la legge precedente e che conservano rilevanza penale anche
con la nuova legge.

In particolare:

– l’articolo 1
della legge 1369/60 prevedeva come reato la condotta violatrice del
divieto di affidare, in appalto, subappalto o in altre forme atipiche,
l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera
assunta e retribuita dall’appaltatore;

– l’articolo 18 del D.Lgs 276/03 prevede attualmente
come reato sia l’esercizio non autorizzato dell’attività di somministrazione di
lavoro, sia l’utilizzazione di prestazioni provenienti da soggetto non
autorizzato o comunque al di fuori dei casi previsti dalla legge. Ne consegue
che la somministrazione di
lavoro deve considerarsi lecita solo se effettuata da soggetti
autorizzati e nei casi e secondo le modalità espressamente disciplinati, mentre
era e resta illecita se effettuata al di fuori di tali condizioni.

Nella specie, la contestata
somministrazione di manodopera, posta in essere dagli
imputati al di fuori delle regole introdotte dal D.Lgs
276/03, aveva rilevanza penale alla stregua della normativa abrogata e continua
ad averla secondo quella attuale.

2. In tale situazione deve essere
applicato il principio della legge più favorevole di cui al comma 3
dell’articolo 2 Cp, per l’esercizio non autorizzato
delle attività di somministrazione e di intermediazione
del lavoro – però – la pena edittale attuale è
quella, già prevista, dell’ammenda di euro 5,00 per ogni lavoratore occupato e
per ogni giornata di lavoro, sicchè non si pongono
problematiche di successione di leggi in ordine al quantum della pena inflitta
in concreto.

Quanto al computo della pena,
inoltre, il giudice del merito correttamente ha riferito ogni giornata
lavorativa a ciascuno dei (nove) lavoratori occupati.

3. La sussistenza della fattispecie contravvenzionale contestata è stata accertata, in punto di
fatto, attraverso le deposizioni testimoniali acquisite
al dibattimento,dalle quali risulta coerentemente dedotto che le prestazioni
“appaltate” erano riconducibili a mere prestazioni di lavoro da parte de soci
della cooperativa, in una situazione in cui la cooperativa medesima non
assumeva alcun rischio economico d’impresa ed era del tutto estranea
all’esercizio di qualsiasi direzione e controllo sull’attività lavorativa e
sull’orario di lavoro.

L’articolo 29 del D.Lgs
276/03 ha ribadito i criteri distintivi tra la
somministrazione di lavoro e l’appalto di opera o di servizio di cui
all’articolo 1655 Cc, prevedendo che sussiste
l’appalto solo nel caso in cui l’organizzazione dei mezzi produttivi, la
direzione dei lavoratori e l’assunzione del rischio d’impresa restano in capo
all’appaltatore e non al committente o utilizzatore delle prestazioni.

Nella specie, di conseguenza,
legittima appare la conclusione secondo la quale si è concretizzata, nella
specie, una somministrazione di manodopera, vietata e penalmente sanzionata in quanto priva dei requisiti soggettivi ed
oggettivi previsti dalla nuova legge, e correttamente i contratti intercorsi
tra le due società sono stati valutati non per il nomen
iuris loro assegnato, bensì per il loro contenuto
effettivo.

4. Al rigetto del ricorso segue la
condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.

PQM

La Corte suprema di cassazione, visti
gli articoli 607, 615 e 616 Cpp, rigetta il ricorso e
condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.