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Thursday 26 November 2020

AMBIENTE DI LAVORO. La prova della nocività dell’ambiente di lavoro è a carico del lavoratore che si ritiene danneggiato.

L’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

Lo afferma la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza n. 23921 pubblicata il 29 ottobre 2020.

Il caso deciso: domanda di risarcimento dei danni proposta dagli eredi di un lavoratore chimico alle dipendenze di laboratorio ospedaliero, deceduto per cause ritenute riconducibili al datore di lavoro.
Gli eredi di un chimico coordinatore presso il laboratorio di ospedale agivano in giudizio nei confronti dell’azienda ospedaliera e dell’azienda sanitaria  ULSS, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa del decesso del loro congiunto. Asserendo che l’evento fosse riconducibile ad agenti cancerogeni cui era rimasto esposto durante le mansioni lavorative svolte fin dagli anni ’70. Il Tribunale in primo grado rigettava la domanda, ritenendo prescritto il diritto. Proposto appello, la corte territoriale confermava la prescrizione per quanto riguardava la posizione del coniuge del lavoratore, mentre per quanto concerneva la posizione dei figli respingeva comunque la domanda per assenza di nesso causale tra la morte del lavoratore e l’esposizione alle sostanze nocive. Proponevano ricorso per cassazione gli eredi del lavoratore e ricorso incidentale le aziende.

La dedotta violazione dell’art. 2087 cod. civ.
I ricorrenti introducono, tra i vari motivi proposti, la asserita violazione dell’articolo 2087 del codice civile, ritenendo che la patologia contratta dal dipendente, da cui è scaturito il decesso, fosse correlata alla nocività dell’ambiente di lavoro. Sostenendo, a tal proposito, che fosse necessario, per poter efficacemente negare il nesso causale tra danno e ambiente di lavoro, caratterizzato da esposizione a sostanze cancerogene in assenza di idonee protezioni, escludere ogni interferenza di decorsi alternativi.
Gli ermellini non condividono la tesi prospettata. Una corretta analisi in merito alla violazione dell’art. 2087 c.c., deve tener conto del principio, ripetutamente affermato dalla Corte di legittimità, per cui la norma non individua una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell’esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo sempre che l’evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall’esperienza.
Ai fini dell’accertamento della responsabilità datoriale, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo..
Nella sentenza impugnata, la corte territoriale ha ritenuto che, rispetto alla patologia tumorale insorta, l’esposizione a sostanze cancerogene nel corso del rapporto lavorativo non potesse dirsi munita di rilevanza causale, poiché era da ritenersi ignota, secondo criteri di validazione scientifica, la loro incidenza. Dalle risultanze della espletata c.t.u. era emerso che in letteratura scientifica nessuna delle sostanze cui era venuto a contatto il lavoratore rivestiva rilevanza causale nell’insorgenza del tipo di tumore. E dunque, secondo il c.t.u., doveva escludersi la presenza di evidenze idonee a giustificare l’affermazione di un nesso di causa. Peraltro, sempre dalle risultanze della c.t.u., era emerso che il lavoratore deceduto fosse assiduo fumatore, dapprima di sigarette e poi di pipa. Che dunque il fumo ben poteva innestarsi quale concausa della insorta patologia tumorale.

La valutazione delle conclusioni della c.t.u. attengono al merito della causa
Il ricorso proposto si spinge ad effettuare una diversa prospettazione delle conclusioni emerse dalla c.t.u. e fatte proprie dalla corte territoriale. Prospettazione che inevitabilmente riguarda il merito della causa e dunque estranea al giudizio di legittimità in cassazione.

Il perfezionamento della notifica a mezzo posta
La pronuncia resa dal Supremo Collegio enuncia inoltre un principio di diritto in ambito di notificazione degli atti a mezzo posta.
E’ stata sollevata in giudizio l’eccezione di inammissibilità del controricorso proposto dall’azienda sanitaria.
La vicenda riguarda il perfezionamento della notifica a mezzo posta, in caso di irreperibilità relativa del destinatario, per la cui prova non è sufficiente la prova della spedizione della raccomandata di avviso di deposito del plico, ma occorre anche la prova dell’esito della raccomandata stessa, mediante la produzione dell’avviso di ricevimento della comunicazione di avvenuto deposito (il cosiddetto C.A.D.) . La questione sollevata ha spinto il Collegio ad enunciare il seguente principio di diritto:
“In tema di notificazione a mezzo posta, la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio nel caso di irreperibilità relativa del destinatario deve avvenire, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 8 della l. n. 890 del 1982, con la verifica dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd C.A.D.). IL controllo sull’avviso di ricevimento della C.A.D. deve riguardare, in caso di ulteriore assenza del destinatario in occasione del recapito della relativa raccomandata, non seguita dal ritiro del piego entro il termine di giacenza, l’attestazione dell’agente postale in ordine all’avvenuta immissione dell’avviso di deposito nella cassetta postale od alla sua affissione alla porta dell’abitazione, formalità le quali, ove attuate entro il predetto termine di giacenza, consentono il perfezionarsi della notifica allo spirare del decimo giorno dalla spedizione della raccomandata stessa, spettando al destinatario eventualmente contestare, adducendo le relative ragioni di fatto e proponendo quando necessario querela di falso, che, nonostante quanto risultante dall’avviso di ricevimento inerente la C.A.D., in concreto non si siano realizzati i presupposti di conoscibilità richiesti dalla legge oppure egli si sia trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prendere cognizione del piego”.
In conclusione: il ricorso principale dei ricorrenti è stato rigettato per infondatezza, assorbiti i ricorsi incidentali e dichiarato inammissibile il controricorso dell’azienda USSL.

Avv. Roberto Dulio